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Una poesia di proposta e di recupero culturale  
di Elio Fox

Poeti si può anche diventare, non necessariamente nascere. Tuttavia, anche in questo caso, in qualche comparto del nostro cuore e della nostra mente, il germe della poesia deve pur esserci, se poi viene a galla, ma di per sé potrebbe essere infecondo o passare inosservato se, ad un certo momento, non fosse «costretto» a fare i conti con la necessità di esprimere e di comunicare.
Questo, in estrema sintesi, potrebbe essere il percorso poetico affrontato in età matura, dall’avv. Sergio de Carneri, «costretto»   - si fa per dire -  a diventare poeta dialettale per poter trasmettere alla
       
  Prefazione
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 Poemetto  
    Poesie    
           
grazie a ...        
Note        
 
sua gente un messaggio di informazione che era al tempo stesso culturale e politico.
Non è la prima volta che, per farsi capire dal popolo, gli intellettuali usano la lingua stessa del popolo. Tutta la poesia dialettale roveretana del Settecento, nata in seno all’Accademia degli Agiati, è la prova provata di questa volontà di comunicazione verso il popolo, da parte del fior fiore degli intellettuali roveretani dell’epoca, in grande dimestichezza con la poesia delle lingue classiche, ma che si adattarono – anche, è bene sottolinearlo, divertendosi un bel po’ - ad usare la lingua della gente per lasciare un messaggio che fosse comprensibile e godibile anche dal popolo. Popolo che era certo povero, che non poteva dedicare allo studio il tempo necessario per capire i classici, ma che era scolarizzato e quindi sapeva leggere e scrivere e si godeva a percorrere le «storie» dei Givanni, dei Galvagni, dei Turrati e degli Zanolli, tanto per nominarne alcuni, che «crearono» la prima poesia dialettale della nostra piccola terra.
Anche in Valle di Non, seconda zona del Trentino a presentarsi “sulla scena” della poesia dialettale sempre nel Settecento - dopo averci offerto, nel Seicento, grande poesia in lingua con Cristoforo Busetti - è la gente colta a scrivere il dialetto: Carlo Sieli era avvocato o notaio, Bortolo Tomazzoli era sacerdote ed educatore, Leonardo Rizzi o Rucci era commerciante; a Trento il primo poeta documentato, sempre nel Settecento, fu Romedio Antonio Gallizioli, medico e farmacista.
Come si vede, tutta la poesia dialettale trentina delle origini è opera di intellettuali. Il popolo non aveva tempo per queste cose. Ma l’intellettuale ambiva di essere seguito dal popolo, era il suo pubblico preferito, a volte con racconti aulici (come quello del Givanni dell’ «Ensoni de Messer Pinpesio»), altre volte con storielle triviali e scurrili (come il poemetto di don Giacomo Antonio Turrati, del quale, per ragioni di decenza, si omette il titolo).
Sul dialetto ha fatto leva anche l’avv. de Carneri, una brillante carriera forense in atto ed una brillante parentesi parlamentare nel passato, dalla quale ha certo appreso anche l’uso felpato della diplomazia. Pur vivendo da moltissimi anni a Rovereto, Sergio de Carneri è rimasto nòneso nel cuore, nella mente e nella lingua. E di questi tre ingredienti - cuore, mente e lingua - ha fatto buon uso in un momento politicamente ed amministrativamente delicato per la sua valle, quale fu quello del censimento dell’autunno del 2001, che dava facoltà ai trentini - non solo della Valle di Non, ma certo soprattutto a quelli - di rivendicare, se lo avessero ritenuto utile, la loro appartenenza al gruppo linguistico ladino-nòneso. Per l’occasione de Carneri scrisse un breve poemetto dal titolo «La conta dei nònesi - Cjampéti en nònes sclèt sul censimént dei doimilieùn»
Perché de Carneri si risolse ad usare il dialetto e non il più diffuso codice della lingua nazionale? Egli fece in parte ciò che fecero gli accademici roveretani due secoli e mezzo fa, cioè uso della lingua del popolo per essere più vicino al popolo, ma in gran parte per due obiettivi autonomi e diversi rispetto a quelli degli accademici roveretani: il primo era quello di sensibilizzare la sua gente sul problema centrale della «lingua nònesa», dimostrandone l’efficacia, la duttilità e la ricchezza; il secondo non poteva che essere quello di far comprendere alla sua gente che la sua iniziativa in difesa di questo «principio di appartenenza linguistica», non era una battaglia di elite, di quattro o cinque intellettuali legittimamente ambiziosi, ma un problema che riguardava direttamente tutta la gente della valle.
Questa su la “conta dei nònesi”, che come genere letterario si colloca fra il manifesto politico e la saga popolare, fu la prima e brillante - «opera nònesa» di Sergio de Carneri.
Essa contribuì alla presa di coscienza dei Nonesi sulla loro identità tanto che in sede di censimento quasi il 20% dei residenti in Val di Non si dichiarò ladino.
Poi, come spesso per fortuna càpita, l’appetito è venuto mangiando e nei mesi e negli anni successivi al 2000 - anno in cui apparve «La conta dei nònesi» - de Carneri venne via via ad offrirci altri lavori, di diverso contenuto e gusto, fra i quali mi piace ricordare «En lode dela lénga nònesa» e «Ai pèi del Dòs de Pez», e «El balsam de Giove» e l’ultimo «La me Val».
In questo sito troverete questi racconti poetici, come io preferisco definirli, scritti con una precisa motivazione che lo stesso de Carneri ebbe ad esplicitare nella sua prefazione a «La conta dei nònesi». Parlando del ladino dice:
Una lingua certo non dotta, una lingua del popolo, ma che tuttavia era già viva mille anni prima che nascesse la lingua italiana. Da quasi due secoli e mezzo esiste una letteratura nònesa scritta, nata spontaneamente e in molteplici centri della valle di cui sono stati e sono protagonisti uomini e donne di ogni ceto sociale e di ogni livello culturale.
Una letteratura e una poesia che si è fatta di volta in volta testimone ed interprete delle vicende, del comune sentire, delle aspirazioni della gente nònesa, dei suoi valori e della sua identità.

Fedele a questo principio, di una poesia o, meglio, di un verseggiare, finalizzato alla riconquista di una identità culturale e linguistica che in decenni recenti è stata piuttosto trascurata sia dalle istituzioni che dagli uomini di cultura (salvo poche eccezioni, Enrico Quaresima e Luigi Menapace sopra tutti), Sergio de Carneri ha scritto queste cose di garbata ed accattivante lettura. Sono insegnamenti, la storia della valle e della sua gente, la storia della lingua della valle, la necessità di un percorso di recupero, un modo per riaccostare la gente al proprio linguaggio primigenio.
Molti sono certo i nònesi sparsi per il mondo, che potranno leggere con gusto queste brevi strofe, ben cadenzate e non prive di verve. Una porta che si apre sul passato, ma che in prospettiva ha il futuro.
Altre cose, è la nostra speranza, scriverà, senza ambire ai vertici della lirica poetica nònesa (che con Bortolo Sicher e Guglielmo Bertagnolli ha raggiunti livelli difficilmente valicabili non solo a livello di Valle, ma anche provinciale ed extraprovinciale), ma con la coscienza che oggi serve anche una poesia di proposta, una poesia finalizzata, una poesia di recupero identitario per ricucire lo iato quasi secolare che ha portato la poesia nònesa, da protagonista quale era, a comparsa quale è diventata nel Novecento, con poche voci liriche - Anselmo Chini fra queste - all’altezza della tradizione.
Da uomo di cultura classica, Sergio de Carneri si è anche cimentato in alcune gustose traduzioni dalla lingua greca al nòneso (passando per la lingua italiana). Sono frammenti: in fondo il greco usato da Archiloco e dalla sublime Saffo, non era una lingua, ma dialetto. Archiloco è stato il primo poeta di questa terra del quale si abbiano notizie storiche certe, ed ha usato il dialetto jonico delle Cicladi, dove lui nacque nell’isola di Paro, nel 750 avanti Cristo.
La sua quasi coetanea Saffo, nata ad Ereso sull’isola di Lesbo negli ultimi decenni del 600 a.C., visse a Lesbo e fra il 607 e il 590 e fu anche in Sicilia. Il dialetto di Saffo è quello eolico. In pratica, si tratta di un «favore» che un dialettale contemporaneo ha fatto e fa, a dei «colleghi dialettali» di 2500 anni fa.